Enrico Benassi
Presentazioni

AMARCORD di Walter Carlino




Non so se e quando tornerò a scrivere su questa Rivista, un po’ per le precarie condizioni di salute, un po’ per la situazione della Rivista stessa, che da sempre lotta per la sopravvivenza.
Così, in una piovosa giornata di questa primavera, mi scorrono nella mente quasi vent’anni di “amore naif“. E’ stato un amore a prima vista purtuttavia destinato a durare nel tempo senza incertezze e tradimenti.
L’ amico Blini mi raccontava di una visita fatta a Rovesti e dalla quale era tornato portando, a mo’ di trofeo, alcuni quadretti.
Mi incuriosirono l’uomo e le opere, così che, breve tempo dopo, mi trovai a varcare la galleria privata di Bruno Rovesti, “Pittore contadino celebre“, come egli amava definirsi, in compagnia dello stesso Blini.
Per me, cultore dell’arte moderna - che, in quel tempo, si nutriva di astrazioni spesso inintelleggibili - fu come un colpo di fulmine nel vedere raccontare personaggi e cose in modo così semplice e diretto.
L’uomo Rovesti, già pluridecorato sul campo, mi raccontava dei suoi quadri, ma io non lo stavo nemmeno a sentire, preso com’ero dalla loro visione: scoprivo una Padania inusitata, perché proporzioni e colori ne alteravano l’aspetto. L’arte è sempre una convenzione e, come per Mondrian L’asta rappresenta la semplificazione dell’albero, così per Rovesti il “paesaggio cinese“ era in realtà una radura di Gualtieri, dove strani contadini in giallo o azzurro sovrastavano case ed alberi.
Tuttavia ciò che contava non era la rappresentazione in se, quanto la poesia che stava dietro quei racconti espressi in modo primitivo: Rovesti risvegliava in me il piacere delle cose semplici, che, in quanto tali, non chiedono alcuno sforzo interpretativo, come accade non infrequentemente nell’arte colta.
Parlammo anche di Ligabue e, nel raccontargli in tono elogiativo di una personale di questi a “La Parete“ di Milano, poco prima che morisse, ne compresi l’aspra rivalità che lo divideva dal “Van Gogh“ della Padania. E così era anche nei confronti di Ghizzardi, che, con i primi due, ha scritto pagine fra le più significative dell’arte naive italiana. Rientrato a Milano volli sapere un po’ di più sulla pittura ingenua e trovai un solo libro, ma molto importante: “I primitivi contemporanei“ di Oto Bihalji Merin, edito nel 1960 da “Il Saggiatore“. A parte la lettura, istruttiva ed interessante, quel libro mi consentì di scoprire un altro artista, che abitava proprio nella mia città: Bernardo Pasotti. Lo rintracciai con estrema facilità e mi ricevette nel suo studio ubicato nella sagrestia di una chiesa, nel cuore di Milano: era un vasto ambiente freddo e semioscuro: al centro un cavalletto sotto l’unica lampada ed una stufetta, che emanava un debole calore; ai lati decine di quadri, spesso di grandi proporzioni. Il mondo rappresentato era agli antipodi di quello di Rovesti, ma fra i due vi era la stessa poesia. Pasotti raccontava in modo serioso città e luoghi della Lombardia; serioso forse a causa dei colori cupi e intensi di cui si ammantavano le sue licenziose architetture.
Infatti anche lui aveva un senso delle proporzioni del tutto personale; angeli e santi sovrastano chiese e palazzi in maniera preponderante, quasi a sostituire la carenza di personaggi dalle sue vedute urbane.
Fra tutti gli artisti che ho conosciuto Pasotti è senz’altro uno fra i più autenticamente naifs: tale matrice viene dal profondo del suo animo, dal suo fare disarmante, ma non disarmato, dalla sua “ ingenuità “ nativa e spontanea. Forse è per questo che ho mantenuto con lui un lungo e affettuoso sodalizio.
Sempre con l’amico Blini iniziai le mie peregrinazioni in giro per l’Italia e soprattutto per la Padania: scoprimmo così che il Ligabue visto negli anni sessante a “La Parete“ era l’avanguardia di un esercito, le cui fila si ingrossavano di giorno in giorno. Riandando con la memoria ricordo ancora quella mostra, che aveva incuriosito gli avventori del locale ( si trattava di una specie di cave frequentata dalla Milano bene, ma anche da personaggi autorevoli del mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo ), senza peraltro trovare acquirenti. Il proprietario. Pino Abiami, ne era veramente dispiaciuto e, per non deludere il povero “ Toni “, acquistò egli stesso qualcosa. A fine mostra Ligabue, accompagnato da un amico, caricò i quadri su un furgoncino e se ne andò. Pensate: con una cifra aggirantesi intorno alle cinquecentomila lire si potevano comprare tutte le opere esposte!
Già da qualche anno si erano costituiti il “ Premio Nazionale dei Naifs Italiani “(1967) ed il relativo Museo (1968); e, proprio nella Padania, cogliemmo diffusi sentori di polemica non solo fra gli artisti, ma anche fra gli addetti ai lavori: ne erano stimolo i criteri di selezione della giuria e, al di là di ciò, si insinuavano dubbi di favoritismi e clientele.
Naturalmente vi erano anche gli isolati - come è giusto che sia per un naif - i quali stavano fuori dalla bagarre.
Fra questi vi era una gentile signora di Voghera, Luisa Pagano, che presi a frequentare con una certa assiduità: al contrario di Pasotti il suo mondo si incentrava sulla figura con particolare predilezione per quella femminile. Anche i colori erano tersi e chiari, conferendo alla situazione rappresentata una luce diafana, quasi si trattasse di una visione extraterrestre. Con lei intavolavo lunghe discussioni sull’arte naive e sarà poi mia compagna di viaggio, quando mi recai a Madera, inviato dall’amministrazione comunale, per collaborare alla creazione di un museo dedicato ai naifs.
Anche Arsen Pohribny era disinteressato alla polemica luzzarese. Lo conobbi fuggevolmente nel 1971, a Prato, in occasione della mostra di Palazzo Pretorio da lui organizzata. Critico attento e misurato fu trai i primi a teorizzare sull’arte naive (il catalogo di quella mostra ne è preziosa testimonianza). Ebbi così l’opportunità di vedere, per la prima volta e dal vivo, i naifs europei rigorosamente selezionati secondo criteri e categorie da lui teorizzati. Divenimmo amici negli anni a venire e fu prezioso consigliere per l’acquisto di molte opere straniere della mia collezione (devo a lui la scoperta di Boix Vives, Hagoort, Hruska, Raffler, Neervoort, Vandersteen e di altri ancora).
Intanto nella bassa padana c’è chi pensava di mettere a profitto la pittura naive: si trattava di un business di non poco conto, visto che il fenomeno stava divenendo un fatto di costume, che investiva non solo le arti visive, ma anche la moda, la pubblicità, ecc. Spuntavano un po’ dovunque autori che si proponevano o erano proposti nelle numerose esposizioni da critici o sedicenti tali, da registi, da fotografi, ecc.; insomma chi più ne ha ne metta.
Anche in Umbria si rammentarono di un grande antenato, Orneore Metelli, e, sulla sua scia, crescevano numerosi i seguaci.
In questa enorme confusione Mario De Micheli e Renzo Margonari licenziavano nel 1972 “I Naifs Italiani“ edito da Passera & Tota di Parma: a loro dire erano una rassegna del meglio di casa nostra. Ma, a quanto pare, le cose non stavano così, perché altri autori di pari valore non erano stati inseriti nel volume, essendosi rifiutati di “omaggiare” gli editori con loro opere. Questa almeno era la versione degli interessati; versione peraltro non lontana dal vero, in quanto, per esperienza personale, so che la maggior parte dei cataloghi si fanno con il concorso, in opere ed anche in denaro, degli artisti.
La storia fece il giro d’Italia e raccolse sdegno e rabbia, ma anche rivalità e gelosie.
Proprio in questo contesto nasceva in me e il Blini l’idea di fare un censimento dei naifs italiani, comprendendovi anche coloro che tali erano ritenuti da alcuni critici e galleristi. Tanto per intenderci autori come Covili, Norberto, Mozzali, ecc.
L’impresa ci apparve tuttavia fuori dalla nostra portata non soltanto per mancanza di mezzi, ma anche perché non eravamo degli addetti ai lavori.
Parlando casualmente con Mario Monteverdi, questi ci propose un colloquio con il suo editore, Remo Boniotti della Seletecnica. E fu presto detto: l’incontro avvenne e si combinò in breve per la pubblicazione del libro “Naifs Italiani Oggi”.
Il lavoro da fare era enorme, ma, nella circostanza, il senso organizzativo di Blini fu di grande aiuto per la realizzazione dell’impresa.
Ricavai dai vari libri e cataloghi i nomi dei naifs o presunti tali, compilandone una lunga lista: entrò poi in azione Blini, che, per telefono o di persona, interpellò i vari autori per i dati necessari alla compilazione delle relative schede. Aiutato da mia moglie ordinavo il materiale inviatomi, corredando le schede di ogni singolo artista di un profilo critico; a questo riguardo fu preziosa la collaborazione di Dino Villani.
Interpellai anche Dino Menozzi e fui in quella circostanza che ci conoscemmo: eravamo nel 1973, in un momento di estrema confusione e non riuscii quindi a convincerlo sull’onestà dei nostri intenti. Peraltro, da galantuomo quale egli è, ce ne diede testimonianza proprio sulle pagine di questa Rivista, che aveva visto la luce nel marzo del 1974.
Divenimmo amici, condividendo insieme la comune passione; una passione travolgente: sabati e domeniche erano ormai riservati ai naifs, ma, anche negli altri giorni della settimana, i ritagli di tempo non erano più tali.
Non facemmo a tempo a licenziare “Naifs Italiani Oggi” che iniziò la mia collaborazione con l’Arte Naive (il mio primo servizio era dedicato a Luisa Pagano). Conobbi anche gli amici di Menozzi: Lando Orlich, Giuseppe Berti, Giorgio Crema e gli altri.
Nel maggio del 1975, in via Brera, nel cuore della Milano artistica, si apriva l’Art Gallery diretta da Hrvoje Delic: erano esposti naifs iugoslavi, che, in quel momento furoreggiavano. Feci subito conoscenza con Delic e qualche tempo dopo con il suo socio Renato Degni.
In effetti l’apporto di questi Artisti alla diffusione del fenomeno fu determinante: Ivan Generalić, primo fra tutti, ha lastricato la strada della naivetè, rendendone agevole il percorso a coloro che lo avevano preceduto e ai tanti che lo hanno seguito.
Rendendomi conto di ciò, convinsi Menozzi ad accompagnarmi in Podravina per conoscere i personaggi, le opere e i luoghi dei pittori di Hlebine.
Prima tappa del lungo viaggio era Zagabria, da Grgo Gamulin, che ci fece da autorevole accompagnatore ed interprete.
Iniziammo il giro delle visite con Mijo Kovacic, di cui si teneva la personale alla Galleria d’Arte Primitiva di Hlebine, il mitico villaggio dal quale partì la fiaccola di Ivan Generalić per fare il giro del mondo. Kovacic aveva l’aspetto di un astuto zingaro dallo sguardo tagliente: era un personaggio complesso come lo erano le sue opere più significative. Egli è il maestro della magia e dell’allusione, giuocate con una tecnica sopraffina; non ha nulla delle “ingenuità” del capo-scuola, del quale si è ben presto affrancato.
Ben diversa figura era quella di Ivan Vecenay, cordiale ed espansivo come non altri. I di lui dipinti, ispirati a raffigurazioni bibliche o religiose, contrastavano con questo suo carattere. Abitava in una modesta casa contadina, anche se fuori dalla porta troneggiava una lucida Mercedes. Con la furbizia tipica del contadino ci raccontò soddisfatto delle vendite dei suoi quadri e trascorremmo l’intero pomeriggio in piacevole compagnia.
Si ritornò a Zagabria sotto una pioggia battente e, dopo una breve visita a Nikola Kovacevic, ci recammo da Josip Generalić, che ospitava il padre Ivan. La circostanza era delle meno favorevoli, in quanto la moglie di quest’ultimo, gravemente ammalata, era ricoverata in ospedale. Anche se il nostro incontro, a causa di ciò, fu fugace, ebbi la possibilità di ammirare alcuni capolavori che il maestro aveva donato al figlio Josip nel corso degli anni: ebbi nuovamente la conferma di quanto grande sia stato il debito dei pittori della Scuola di Hlebine verso questo artista, ormai famoso in tutto il mondo. Scorsi sulla sua scrivania numerose lettere di musei, enti e gallerie di ogni dove, che chiedevano quadri per esposizione o acquisti. Malgrado ciò, egli era rimasto un uomo semplice ed indifferente agli agi del consumismo; aspirava solo a ritornare alla sua Hlebine, a respirare il profumo della terra natia, musa ispiratrice delle sue opere.
In questa galleria di personaggi non ho certo dimenticato il sommo, il più gran de di tutti: Henri Rousseau. Di lui vi parlerò fra poco.
Andai a Zurigo per vedere la mostra “Die Kunst der Naiven”, di cui era curatore Oto Bihalji Merin. Eravamo nel 1975.
Miei compagni di viaggio erano Antonio Amaduzzi, Gianni Berengo Gardin e Mauro Bini. Il primo era l’autore dei Cataloghi Bolaffi dei Naifs Italiani; professore universitario, collezionista, appassionato di arte naive, anche se nutriva indulgenza verso alcuni autori (Oscar de Meyo, Filippo Alcaini, Marcello La Spina ed altri), che fanno arricciare il naso ai puristi. Il secondo era uno dei più famosi fotografi italiani; amico inseparabile di Amaduzzi, curò i sevizi fotografici dei Cataloghi Bolaffi ed è anch’egli un collezionista. Il terzo era un giovane pittore con tanti sogni nel cassetto.
Inutile dire quale sia stato l’argomento di discussione durante tutto il viaggio.
Varcammo emozionati la soglia del museo che ospitava la mostra e ci vennero subito incontro almeno una decina di grandi tele di Rousseau: sì, è proprio lui il maestro della magia e dell’incantesimo. Non avevo mai visto dal vivo un numero cosi consistente di sue opere. In quel momento mi venne in mente Luzzara: ebbi un moto di vergogna. Certo organizzare mostre a colpi di Rousseau, Bombois, Pirosmanaschwili, Hirshfield, ecc., non era facile, ma quel che mancava nelle nostre iniziative, almeno nella maggior parte di esse, era il senso della dignità.
Il materiale esposto era davvero imponente: ma non mancava nessuno degli artisti che contavano e non vi nascondo la mia emozione e come un senso di riverenza di fronte a cosi tanti ”maestri”. Quella di Zurigo restava la più grande mostra che io abbia mai visto; penso che i miei compagni di viaggio siano stati del medesimo parere.
Non so se al collezionista capiti quello che è successo al sottoscritto: dopo aver visto cotante opere, ti viene voglia di buttare via tutti i tuoi quadri. Il tempo però è un gran medico; trascorso qualche tempo, il ricordo si indebolisce e subentra l’assuefazione alla quotidianità. Del resto, quando non lavoravo, ero troppo occupato ad andar per naifs, che non rimaneva spazio.
Fra le mie peregrinazioni abituali c’era quella all’Art Gallery ogni sabato pomeriggio: vi incontravo amici appassionati, collezionisti ed anche qualche pittore, come Bini, Pasotti e Bolognesi.
Renato Degni condivideva con Delic la gestione della galleria: fu proprio lui che mi aiutò a convincere Delic ad organizzare una mostra sui naifs italiani.
Infatti per lui, iugoslavo, i naifs erano solo quelli iugoslavi e persuaderlo del contrario non fu una impresa facile.
Eravamo nel 1976 e, persistendo la confusione sull’argomento, volevo selezionare un ristretto gruppo di autori per proporre, anche con il supporto di un catalogo ad hoc, l’avvio di un processo di rivalutazione critica.
La scelta cadde su sei nomi: Maria Andruszkiewicz, Mauro Bini, Ferruccio Boolognesi, Bernardo Pasotti, Alfredo Ruggeri e Giuseppe Serafini.
Lo spettro d’indagine era molto ampio.
La Andruszkiewicz, pur essendo in età avanzata (classe 1891), era una pittrice giovane come lo era Bini (classe 1941): la prima si iscriveva al filone primitivo, mentre il secondo era un menestrello della favola. Bolognesi, maestro di incredibile cromatismo , confrontava le sue piacevoli e spesso argute rappresentazioni con quelle austere di Pasotti. Infine Ruggeri e Serafini: l’uno, naif della vecchia guardia, riservato e severo, era il cantore della nativa Umbria; l’altro era un nome emergente, simpatico e gioviale, che dipingeva d’apres con una tecnica antica, come lui la definiva.
La mostra ebbe un grande successo di pubblico e anche gli acquirenti non mancarono. Non voglio apparire immodesto, ma il libretto-catalogo, redatto dal sottoscritto insieme a Renato Degni, riscosse apprezzamenti sull’approccio all’auspicato processo di rivalutazione critica del fenomeno naif.
Vi erano altri due autori che avrei voluto includere nella mostra se avessi avuto il tempo necessario: Giacomo Pomili, detto “Il Tarpato”, ed Irene Invrea.
Dei miei innumerevoli viaggi ricordo quello a Grottammare, in provincia di Ascoli Piceno, per incontrarmi con Pomili. Ero ad Avellino, proveniente dalla Calabria, e dovetti attraversare l’Italia per giungere a Grottammare. “Il Tarpato” era un personaggio taciturno e scorbutico; per lui parlava il fratello, che era il suo press agent. La casa era piena di quadri e mi diceva che le vendite non erano facili. Il genere di pittura, aspro e primitivo, non invogliava certo gli acquirenti. Quanto ai rapporti culturali Grottammare è tagliata fuori dal mondo e suggerii alcuni canali di eventuale contatto. Non so se sia stato fatto, ma è certo che Pomili è rimasto un oggetto sconosciuto della meteora naive.
Senz’altro più piacevole fu la trasferta a Diano d’Alba per recarmi da Irene Invrea. Mi accompagnava Mauro Bini. In una calda giornata d’autunno attraversammo le Langhe, percorrendo i dolci pendii. La marchesa Irene Invrea abitava in un austero edificio; ci accolse con cordiale simpatia, mostrandoci alcuni suoi lavori dedicati, come sempre, al mondo animale nel contesto di paesaggi surreali dai colori tenui e smorzati. Pranzammo in modo delizioso serviti da una cameriera con crestina e guanti bianchi. Fra i vari argomenti si parlò anche della prossima “Naivi” del 1977, la grande rassegna di Zagabria. Mi sarebbe piaciuta una sostanziosa e qualificata presenza dei nostri artisti. Purtroppo, anche in questa circostanza, le struttture pubbliche mancarono all’appuntamento, cosi che io e Degni riuscimmo solo all’ultimo momento a rattoppare un esiguo drappello di autori (Bini, Bolognesi, Pasotti, Roggeri e Rotunno); per una serie di ragioni non sto a dire non fui in grado di includervi l’Invrea.
Malgrado tutto Degni, nominato commissario per l’Italia, riferì che la nostra rappresentativa aveva ben figurato alla manifestazione.
Nel 1978, in occasione della pubblicazione del “Catalogo Nazionale di Grafica Naive”, di cui ero coautore con Dino Menozzi, tentai un approccio teorico sul fenomeno.
Questo saggio – che mi era costato un severo impegno, anche perché non solo, ne mi considero un critico d’arte – precedeva di un paio d’anni i “Cenni storici sulla pittura naive”, redatti in occasione della IV Biennale Internazionale Naif, patrocinata dall’Ente Fiere Lombardia. Ero nella Commissione Artistica insieme, tra gli altri, a Montagna, Villani, Pozzi, Monteverdi e Menozzi; direttore della rassegna era Vittorio Cesare Rossi, con il quale mi scontrai in modo aspro, la Commissione aveva escluso dall’esposizione alcuni autori sia perché estranei all’arte naive, sia perché la loro validità era apparsa alquanto dubbia. Malgrado ciò, il Rossi, essendone il mercante interessato, espose anche i quadri degli esclusi, che io e Monteverdi con un colpo di mano staccammo dalle pareti il giorno prima dell’inaugurazione. Vi fu una polemica a non finire, ma poi la nostra iniziativa trovò la totale approvazione della Commissione.
In quella circostanza conobbi anche Aurelio De Felice: era stato lo scopritore di Metelli, del quale deteneva un grande numero di opere. Personaggio scontroso e polemico, riuscii a farmi prestare un certo numero di pezzi. Fui peraltro ricompensato, perché la sala dedicata a Metelli risultò fra le più interessanti della Biennale.
Sempre nel 1980 aprì i battenti la Ivan Generalić Gallery: la dirigeva Renato Degni, che aveva rotto il proprio sodalizio con Delic. La mostra inaugurale era ovviamente dedicata ad Ivan Generalić, del cui catalogo fui coautore insieme con molti altri. Rividi il grande Ivan, con il quale trascorsi una felice serata; dopo il decesso della moglie, si era risposato e ciò aveva di nuovo riempito la sua vita.
Con lo stesso Degni collaborai alla monografia di Pasotti, pubblicata nel 1982.
Mantenevo anche i rapporti con Delic, curando alcune mostre dell’Art Gallery: ricordo, in particolare, quella di Enrico Benassi e quella dei naifs francesi, entrambi del 1981.
Fervevano intanto le iniziative a livello internazionale: fra tutte segnalerei la rassegna di Bielefeld nel 1981 e la nascita del Museo di Nizza nel 1982. La prima operò un severissima selezione, affrontando in modo veramente scientifico la problematica naive (il catalogo è al riguardo un prezioso documento). Il secondo si costituì ad iniziativa di Anatole Jakovsky, il noto critico francese, che aveva regalato la sua importante collezione alla città di Nizza. Colà mi recai più volte per incontrarlo senza riuscire nell’intento. Conobbi invece Anne Devroye, conservatore aggiunto del Museo, che mi consentì l’accesso all’archivio, nel quale rinvenni documenti preziosi per il “Codice bibliografico dei naifs”, che stavo predisponendo e che tutt’oggi non ha ancora visto la luce, nella circostanza ricambiai la cortesia, donando alla biblioteca del Museo numerosi libri, soprattutto a documentazione dei naifs italiani.
L’anno successivo, il 1983, si costituiva il CESDAN, che è il nostro Centro studi: esso rappresenta la formale codificazione di un’attività di fatto preesistente da anni.
Non ho raccontato della crisi che da tempo imperversa, perché è un fatto ormai noto a tutti. In modo particolare ne ha risentito l’Italia, dove i cultori della naivitè si sono ridotti ad uno sparuto e sconosciuto manipolo.
La critica ha cessato di occuparsi del problema, mentre gallerie e mercanti sono scomparsi. Anche i miei rapporti con gli Artisti si sono rarefatti sino quasi scomparire.
Sui naifs è scesa una coltre di gelido silenzio, che non so davvero se e quando sarà rimossa.
Nel gennaio del 1987 sono stato operato di un male terribile e vivo di speranza. Le conseguenze dell’intervento mi procurano dolori indicibili e trascorro le notti su una poltrona spesso in dormiveglia. Malgrado il buio riesco a distinguere i miei naifs: sono là sulle pareti a testimonianza di un “amore naif” che non tramonterà mai.


* Walter Carlino muore a Milano nel 1988

Per gentile concessione degli eredi Carlino


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